DIRITTO DI CRITICA DEL LAVORATORE E LICENZIAMENTO: PRECEDENTI E ORIENTAMENTI GIUDIZIARI. I SOCIAL NETWORK.

I post sui social network di un dipendente possono portare al licenziamento per giusta causa quando facciano venire meno il rapporto di fiducia e fedeltà con il datore e travalichino i limiti del diritto di critica.

Al giorno d’oggi, la maggior parte delle persone comunica e manifesta pensieri o idee tramite l’utilizzo di social network e ciò ha fatto diventare queste piattaforme degli strumenti irrinunciabili per esprimersi liberamente e diffondere le proprie opinioni. Occorre, tuttavia, prestare la massima attenzione nel caso in cui i post o messaggi social riguardino l’ambito professionale e lavorativo, poiché sempre più diffuse sono le dispute giudiziarie tra datore di lavoro e dipendente. Infatti, un post del lavoratore, a seconda delle circostanze e del suo contenuto, può essere identificato quale libera espressione del diritto di critica, ovvero, in altri casi, come vedremo, può rappresentare un elemento tale da giustificare un licenziamento.

Recentissima è la pronuncia della Corte d’Appello di Brescia, non ancora depositata, che ha confermato la sentenza di primo grado (n. 515 del 12/10/2021), esprimendosi a favore della reintegrazione e del risarcimento per una dipendente di un supermercato, giudicando in questo modo illegittimo il licenziamento da cui era stata interessata a seguito dei suoi attacchi social contro una nota catena commerciale di cui era dipendente.

La Corte ha motivato la decisione in virtù del fatto che la dipendente rivestiva anche la carica di delegata sindacale per Fisascat Cisl; pertanto, queste affermazioni rientrano “in una legittima espressione del diritto di critica costituzionalmente tutelato art. 21 della costituzione”. 

Nonostante il linguaggio ed il contenuto critico utilizzato, la dipendente è stato ritenuto avesse esercitato il suo diritto di critica in merito ad alcune scelte di organizzazione aziendale, e non aveva con ciò travalicato i limiti del legittimo utilizzo di tale diritto.

La sua opinione riguardava esclusivamente le modalità del “riassetto aziendale” compiuto dai nuovi vertici e non sfociava in attacchi personali e denigratori, che, come tali, avrebbero leso l’onore e la reputazione dei soggetti coinvolti.

Infatti, il licenziamento per giusta causa è il massimo provvedimento disciplinare che può essere adottato in presenza di una condotta del lavoratore tale da ledere irrimediabilmente il vincolo di lealtà che deve sussistere con il datore di lavoro, e che, pertanto, non consente la prosecuzione del rapporto. 

Questo può accadere anche quando il dipendente utilizza sui social espressioni ingiustamente denigratorie dell’immagine del datore di lavoro, così venendo meno ai propri doveri di correttezza e all’obbligo di fedeltà sancito dall’art. 2105 del codice civile. In tali casi la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione ritiene[DSL1]  legittimo il licenziamento.[1]

Nella stessa direzione si era espressa la Corte di Cassazione che con sentenza numero 10280 del 2018, aveva ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice che aveva pubblicato sulla propria bacheca Facebook affermazioni di disprezzo dei confronti della società datrice di lavoro. La Suprema Corte 

aveva affermato che la diffusione di un messaggio offensivo attraverso l’uso di una bacheca Facebook in quel caso aveva assunto valenza diffamatoria. Inoltre, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, la pubblicazione da parte di una lavoratrice nella propria bacheca Facebook di affermazioni di disprezzo nei confronti della società datrice di lavoro integra giusta causa di licenziamento, risultando irrilevante la mancata indicazione del legale rappresentante, perché agevolmente identificabile. [2]

In maniera conforme aveva già deciso anche il Tribunale di Ivrea, con ordinanza del 28 gennaio 2015, ritenendo legittimo il licenziamento di un lavoratore che aveva usato la bacheca virtuale di Facebook per scrivere frasi offensive coinvolgenti i colleghi e il datore di lavoro.

Molteplici sono anche le pronunce dei diversi Tribunali che hanno evidenziato l’esistenza di condotte concernenti la vita privata del lavoratore che possono in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che connota il rapporto di subordinazione, nel senso che esse si riflettono sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro affidabile adempimento dell’obbligazione lavorativa. Tra questi, ad esempio, rinveniamo l’uso improprio del social Twitter per pubblicare contenuti offensivi e denigratori rivolti a soggetti terzi rispetto ai colleghi di lavoro come sancito dal Tribunale di Busto Arsizio il 20 febbraio 2018. [3]

 Anche il Tribunale di Bergamo, con ordinanza del 24 dicembre 2015, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa nei confronti di un lavoratore che ha postato sul proprio profilo Facebook una foto nella quale egli è ritratto mentre impugna un’arma.

Il Tribunale di Firenze, invece, in data 16 ottobre 2019, analizza le esternazioni social del lavoratore anche sotto un punto di vista ulteriore: la potenziale platea che riceve messaggi offensivi. Secondo l’orientamento del tribunale fiorentino, la rilevanza disciplinare o meno dei messaggi e delle immagini condivise cambia a seconda che gli stessi siano pubblicati su profili social aperti a tutti o su account o chat il cui accesso è filtrato e riservato. In quest’ultimo caso la giurisprudenza tende ad equiparare l’invio dei messaggi a forme di corrispondenza privata che, come tali, sono costituzionalmente garantiti e non possono essere usati per avviare un iter disciplinare nei confronti di un dipendente.[4]

Una critica originale era stata pubblicata da un lavoratore che aveva recensito la propria azienda su Google My Business assegnandole 1 sola stella su 5 e lasciando come commento la frase “Lasciate ogni speranza”, in seguito al suo licenziamento, con evidente accostamento, in chiave denigratoria, dell’azienda alla porta degli inferi.  In tale ipotesi Tribunale di Ancona con la sentenza n. 175 del 2021 ha spiegato che i commenti e i punteggi negativi inseriti su piattaforme informatiche possono rilevare disciplinarmente per il lavoratore che li scrive, perché idonei a portare potenziali clienti, fornitori o dipendenti a non avviare affatto rapporti con la società recensita.  In tali casi, non può sostenersi che sia stato esercitato il diritto di critica nei confronti della società posto che tale diritto non può tradursi in un mero commento/paragone idoneo a connotare in modo dispregiativo la datrice di lavoro senza, dunque, alcuna critica specifica a condotte che si sarebbero verificate sul luogo di lavoro.[5]

NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Per quanto riguarda i dipendenti pubblici, al fine di evitare situazioni come quelle sopra esposte, che potrebbero non solo danneggiare l’immagine e la reputazione del datore di lavoro ma più in generale la Pubblica Amministrazione e quindi lo Stato, vi è stato un aggiornamento del Codice di Comportamento dei Dipendenti Pubblici tramite il Decreto Legge “PNRR2”, D.L. 30/04/2022, n. 36, che ha introdotto, in particolare, una sezione dedicata proprio all’utilizzo dei social network per tutelare l’immagine della P.A.. Il codice contiene, altresì, una sezione dedicata al corretto utilizzo delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e social media da parte dei dipendenti pubblici, anche al fine di tutelare l’immagine della pubblica amministrazione.” [6]

IN CONCLUSIONE:

Alla luce dei fatti, delle pronunce e delle considerazioni che sono state esposte emerge con sempre maggior forza la necessità che le società ed in genere i datori di lavoro si dotino di strumenti (sociale media policy) adeguati a disciplinare l’uso dei social media da parte dei lavoratori e, in genere, di chiunque operi per o con il soggetto in questione. In questo articolo ci siamo, infatti, limitati a considerare il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro sotto il profilo disciplinare. Il tema, in realtà, ha rilevanza anche sotto il profilo degli interessi e diritti che pertengono alla sfera giuridica oltre che dei due soggetti considerati, anche di chi operi da esterno in base a rapporti contrattuali (si pensi ai consulenti, ai fornitori e, talvolta, agli stessi clienti).

Questo articolo è stato scritto da un’articolista di LegalTech Italia.


[1] “Si può licenziare per critiche su Facebook?” di Paolo Remer; laleggepertutti.it; 14 novembre 2022.

[2] “Utilizzo improprio del social media: quali conseguenze per il lavoratore?” di Graziano Ligorio; bellettinoadapt.it; 2022.

[3] “Utilizzo improprio del social media: quali conseguenze per il lavoratore?” di Graziano Ligorio; bellettinoadapt.it; 2022.

[4] “Utilizzo improprio del social media: quali conseguenze per il lavoratore?” di Graziano Ligorio; bellettinoadapt.it; 2022.

[5] “L’uso dei social e del web da parte del dipendente: postare commenti può costare caro” di Wanda Falco; toffolettodeluca.it; 2022.

[6] “PNRR e nuova PA: tra consapevolezza privacy, tecnologie informatiche e social network” di Elisa Chizzola; ntplusdiritto.ilsole24ore.com; 2022.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *