NO ALL’UTILIZZO NEL PROCESSO CIVILE DI DATI PERSONALI RACCOLTI ILLECITAMENTE

È possibile utilizzare in un processo civile i dati personali raccolti in violazione della normativa? Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione no.

La decisione adottata dalla Cassazione (sentenza 11 ottobre 2023, n. 28378) riguarda più precisamente i dati raccolti in violazione dei codici deontologici menzionati nel d.lgs. 196/2003 (il cosiddetto “codice privacy”, che disciplinava la materia prima dell’entrata in vigore del GPDR), poi utilizzati in un processo civile. Ma i ragionamenti sottostanti la decisione possono riguardare la raccolta di dati in violazione di qualunque normativa.

Il caso da cui nasce la decisione della Corte di Cassazione riguarda un dipendente Telecom che svolgeva la propria attività lavorativa “sul campo”, non avendo una sede lavorativa predeterminata, ma diversa a seconda del cliente e dell’impianto sul quale il dipendente prestava assistenza tecnica. Naturalmente, questa libertà presupponeva che il datore di lavoro riponesse fiducia nella serietà professionale e affidabilità del lavoratore: eppure, la fiducia del datore di lavoro veniva tradita, in quanto emergeva dall’avvio di un procedimento disciplinare che il lavoratore svolgeva un orario di lavoro inferiore rispetto a quello previsto dal contratto, utilizzando le ore restanti per commissioni e incombenze personali. Conseguentemente, il lavoratore veniva licenziato.

Ciò che interessa ai fini del trattamento dei dati è che le indagini per verificare la malafede e il comportamento scorretto del dipendente erano state svolte da investigatori riconducibili a una società terza, ma i loro nominativi non erano stati indicati nel rapporto investigativo, inficiando così la validità delle indagini.

In sostanza, le clausole contrattuali contenute lettera di incarico della società di investigazione si sono ritorte contro la società stessa ed il datore di lavoro: era previsto, infatti, che la società potesse sì avvalersi di collaboratori per portare avanti le indagini, ma solo a condizione che nel mandato ne venissero indicati i nominativi. In difetto, l’incarico sarebbe stato invalido e di conseguenza l’esito del lavoro di investigazione svolto in ragione di tale mandato sarebbe stato travolto da invalidità, comportando l’inutilizzabilità dei relativi dati nel processo che il lavoratore aveva instaurato per impugnare il licenziamento. Di conseguenza, non potendo utilizzare processualmente le evidenze emerse dalle indagini, non poteva essere provato il fondamento del licenziamento disciplinare del lavoratore Telecom.

Peraltro, l’invalidità di un simile mandato non era prevista solo contrattualmente, ma anche il Garante Privacy si era espresso in tal senso (autorizzazione 6/2016), imponendo alle agenzie di investigazione di indicare i nominativi di eventuali collaboratori, a pena di invalidità dell’incarico.

Se quindi, con riferimento all’utilizzo dei dati illecitamente raccolti, il Garante aveva già preso posizione e la Corte di Cassazione ha statuito in questo caso che essi non possono assolvere ad alcuna funzione in un processo civile (e anche al di fuori, per la verità), resta comunque il dubbio più generale circa l’utilizzabilità di qualunque elemento di prova illegittimamente acquisito.

Questa incertezza riguardo l’utilizzabilità di determinati elementi in un processo deriva dall’assenza, nel codice di procedura civile (a differenza di quello di procedura penale), di precise disposizioni sul tema, lasciando quindi al giudice un apprezzamento da farsi caso per caso. Ciò lascia spazio a un’ampia interpretazione e discrezionalità, fenomeno fisiologico che, tuttavia, andrebbe quantomeno guidato da un impianto normativo adeguato. Anche per evitare disparità di trattamento in circostanze fattualmente simili.

Per quanto riguarda l’utilizzo dei dati illecitamente raccolti, fortunatamente non dovrebbe più presentarsi il dubbio sorto nel processo appena descritto: l’interrogativo è stato infatti risolto dopo l’entrata in vigore del GDPR, con l’introduzione dell’art. 2-decies (seppur con la clausola di salvaguardia di cui all’art. 160-bis del d.lgs. 196/2003), che di fatto recepisce in una norma quanto già stabilito dai giudici, ossia l’inutilizzabilità dei dati illecitamente acquisiti. Restano però le incertezze legate alla lacuna del codice di rito. Attualmente, i giudici propendono per l’esclusione del valore probatorio di elementi illegittimamente acquisiti, ma sarà opportuno che intervenga il legislatore, proprio per arginare la totale discrezionalità degli organi giudicanti. E ciò a beneficio di una maggiore previsione delle decisioni, un maggior rigore nell’acquisizione delle prove, una guida più precisa per i giudici nell’orientare il proprio convincimento.

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