Hate speech online: è un reato?

Qual è l’arma più potente contro il fenomeno dell’hate speech online? L’educazione!
Introduzione

Con l’espressione hate speech online si fa riferimento alla violenza verbale in rete. Hate speech può essere tradotto in italiano con l’espressione “incitamento all’odio”.

Per contrastare efficacemente questo fenomeno bisognerebbe agire sull’educazione e la responsabilizzazione dei cittadini, oltre che sulla previsione di una normativa efficace. Quest’ultima è uno degli argomenti trattati nell’articolo, il quale mira a fornire una visione completa delle manifestazioni d’odio online.

Hate speech online e libertà di espressione

La libertà di espressione sta alla base di ogni ordinamento democratico.

Il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero è sancito nell’art. 21 della Costituzione italiana, il cui comma 1 recita “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Il fenomeno dell’hate speech online è strettamente legato a questo diritto costituzionale. Il nodo centrale della questione è capire se le parole d’odio, le frasi offensive dirette verso una singola persona o un gruppo di persone siano legittimate o meno sulla base di questa disposizione.

I social network possono rivelarsi utili per mantenersi in contatto con i propri amici e familiari, per trovare nuove opportunità lavorative e per essere aggiornati sulle ultime notizie (purché si presti attenzione alle cd. fake news), ma presentano molti rischi che è importante non sottovalutare.

La pandemia da covid-19 ha contribuito all’aumento dell’utilizzo dei social network da parte degli utenti, così come al grado di violenza che li caratterizza.

Il cyberspazio ha un potere di diffusione e di pubblicità dell’odio di lunga maggiore rispetto agli strumenti di comunicazione tradizionali. È possibile che un contenuto diventi virale anche in un brevissimo lasso di tempo. Per queste ragioni è necessario porre dei limiti alla libertà di espressione. Questo bisogno nasce dall’esigenza di contemperare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con altri diritti costituzionali pari-ordinati o sovra-ordinati ad esso. Non è accettabile che la manifestazione della propria opinione leda l’altrui sfera morale.

Hate speech online e offline

Per comprendere le differenze tra hate speech online e offline è necessario partire da una constatazione: l’incitamento all’odio è sempre esistito. I pregiudizi, gli stereotipi e le diversità stanno alla base di questi atteggiamenti. Ancor prima dell’avvento dei social, esistevano le espressioni di disprezzo e di disgusto, gli inviti alla segregazione di certe categorie di persone (individuate sulla base del colore della pelle, del sesso, delle opinioni politiche…) e le affermazioni di inferiorità di alcuni individui.

È nota l’esistenza di movimenti politici che influenzarono le masse a schierarsi, a coalizzarsi contro il “diverso”, e di politici che tenevano discorsi d’odio volti ad incitare i loro sostenitori. L’espressione hate speech nacque negli anni ’20 in America, quindi in un periodo ricordato per la diffusione delle prime teorie antirazziste.

La diffusione dei social network ha portato a massimizzare questo fenomeno. Il cyberspazio, d’altronde, non ha confini e questo rende difficile difendersi. Ecco, quindi, la prima differenza tra hate speech online e offline: la cd. transnazionalità.

Un’altra peculiarità dell’hate speech online è la possibilità dell’anonimato da parte degli utenti. È molto semplice, infatti, ricorrere a pseudonimi e creare dei profili falsi. Questo modo di agire fa sentire gli utenti maggiormente legittimati ad esprimere il proprio odio verso qualcuno e maggiormente protetti, a causa della difficoltà della loro identificazione.

Inoltre, a differenza di ciò che accade nel mondo offline, si registra una seria difficoltà, se non impossibilità, di eliminare i contenuti dal mondo online.  Proprio per questo è fondamentale prestare attenzione a ciò che si pubblica, in quanto anche se un determinato post viene eliminato dal proprio profilo in un momento successivo, magari addirittura immediatamente successivo, alla sua pubblicazione, questo non equivale alla sua rimozione totale dal web.

Hate speech durante la pandemia da coronavirus del 2020

Una delle conseguenze del covid-19 è stata quella di far diventare degli assidui frequentatori dei social network anche le persone che prima non lo erano. Il lockdown, la voglia di tenersi perennemente aggiornati e l’incertezza del domani hanno portato ad un notevole aumento nell’utilizzo di queste piattaforme.

Uno degli strumenti utilizzati dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte per contenere la pandemia e regolare le nostre vite in questi momenti difficili è stato quello del DPCM[1]. Dato che, come scritto anche nella homepage del sito di DirittoConsenso, se la legge è uguale per tutti, tutti devono essere in grado di capire la legge, in questi mesi sono state diverse le dirette sui social o in televisione del premier Conte al fine di spiegare, nella maniera più chiara e concisa possibile, le regole contenute nei vari provvedimenti adottati. Questo comportamento ha fatto sì che si accorciassero le distanze tra cittadini e governo e così, sulla pagina Facebook ufficiale del premier Conte, sono ben visibili i commenti che contengono frasi d’odio, insulti e critiche contro la sua persona e il suo operato.

Così come i cd. influencer, gli attori e, in generale, le persone note, anche il Presidente del Consiglio italiano è stato vittima di attacchi pesanti da parte degli haters. Questi comportamenti integrano un reato? E se sì, com’è possibile difendersi?

La risposta alla prima domanda è affermativa. Queste tipologie di commenti integrano infatti il reato di diffamazione previsto dall’art. 595 c.p. che punisce con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a 1.032 euro chiunque, comunicando con più persone, offenda l’altrui reputazione. La ratio legis, ovvero il fine che ha animato il legislatore nell’adozione di quest’articolo, è quella di garantire la reputazione dell’individuo, ovvero l’onore, inteso come considerazione che il mondo esterno ha del soggetto in questione. Nel concetto di onore sono compresi le doti morali, intellettuali, fisiche della persona e altre qualità che concorrono a definire il suo pregio, il valore che l’individuo ha all’interno del suo ambiente sociale.

Il reato di diffamazione è un reato perseguibile a querela della persona offesa entro tre mesi dalla notizia di reato.

Nel caso di specie, in virtù della carica istituzionale ricoperta da Giuseppe Conte, la condotta è aggravata ai sensi del comma 4 dell’art. 595 c.p. che recita “Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad un’Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.”.

Inoltre, tutte le vittime dell’hating online sono tutelate dal c. 3 dell’art. 595, secondo cui “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.”. Nell’espressione “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” rientra l’ipotesi della bacheca Facebook, in quanto la Corte di Cassazione[2] ha ritenuto che la condotta di diffamazione in tal modo realizzata sia potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato di persone.

Regolamentazione a livello europeo e normative di Facebook ed Instagram

Con l’aumento delle piattaforme social disponibili, si è assistito ad un’escalation d’odio e alla sempre più frequente sostituzione del privato al pubblico in tema di regolamentazione dei comportamenti consentiti online. È frequente infatti che siano gli stessi siti a dettare una policy interna, determinando arbitrariamente e discrezionalmente le regole di condotta.

Il 31 maggio 2016 la Commissione europea, di concerto con Facebook, YouTube, Microsoft, Twitter ha varato un Codice di condotta per contrastare i discorsi d’odio online, con il quale le web companies si sono impegnate ad implementare un sistema di notice-and-take-down (letteralmente notare e rimuovere). Questo processo mira a rimuovere i contenuti “odiosi” entro ventiquattro ore dalla segnalazione da parte degli utenti. L’effettiva attuazione del codice viene monitorata ogni sei mesi. Hanno aderito in un momento successivo anche Instagram, Snapchat, Google+ e Daily-motion.

Con la raccomandazione n. 1177 del 1° marzo 2018, la Commissione europea ha sollecitato gli Stati a chiarire agli hosting service provider quali siano i contenuti illegali che è necessario rimuovere, in modo da eliminare qualsiasi dubbio, e ha invitato i provider ad informare nel modo più semplice e comprensibile possibile gli utenti della propria policy in materia di hating.

Quali sono le posizioni assunte da Facebook e Instagram?

Facebook suddivide i comportamenti in tre livelli di gravità e si impegna a rimuovere l’incitamento all’odio ogni volta che ne viene a conoscenza. Nel suo Blog Hard Question parla anche del trattamento dei cd. casi limite, facendo degli esempi concreti, come quello della Russia e dell’Ucraina. I russi chiamano gli ucraini “khokhol” (letteralmente “ciuffo”), mentre questi chiamano i russi “moskal” (lett. “moscoviti”). A seguito dell’inizio dei conflitti del 2014, i cittadini di entrambi i Paesi iniziarono a segnalare le parole usate dall’altra parte come incitamento all’odio. Dopo un esame minuzioso della questione, il team di Facebook decise di vietarli perché rientranti nel cd. hate speech. Questa scelta sembrò eccessivamente restrittiva, ma per il team fu fondamentale prendere una posizione considerando il contesto del conflitto.

Il punto centrale per Facebook è il contesto nel quale un’affermazione viene fatta, per cui legittima l’uso della satira e della commedia per esprimere un pensiero sull’hate speech.

Il Blog Hard Question contiene anche un paragrafo di scuse per gli eventuali errori che Facebook potrebbe commettere, con un richiamo alla vicenda dell’attivista afromaericano Shaun King. Quando egli pubblicò dei messaggi di odio contenenti degli insulti volgari che aveva ricevuto, Facebook rimosse il suo post, non riconoscendo che il post fosse stato condiviso per condannare l’attacco subito. Una volta avvisata dell’errore, la piattaforma ripristinò immediatamente il post, scusandosi. Facebook sottolinea l’affidamento riposto nella sua community, consapevole delle carenze dell’intelligenza artificiale nel combattere il fenomeno dell’hate speech. Non esiste ancora un sistema perfetto in grado di trovare e distinguere i post che oltrepassano il confine sottile tra libertà di espressione e incitamento all’odio, per cui attualmente esiste un team di revisori che lavorano 24 ore al giorno al fine di far rispettare la normativa.

Instagram, invece, adotta una linea decisamente più morbida, limitandosi a segnalare gli utenti qualora stiano per pubblicare dei post con contenuti d’odio o con notizie false, funzionalità basata sull’intelligenza artificiale. Questo strumento non vieta la pubblicazione di questi tipi di contenuto, ma si limita semplicemente ad indurre gli utenti a riflettere su quello che stanno pubblicando. Ognuno, anche chi non ha un profilo Instagram, può comunque inviare una segnalazione qualora noti dei comportamenti scorretti. In questo caso, Instagram, dopo un’attenta analisi, potrà procedere a disabilitare l’account in questione o ad adottare altre restrizioni (non meglio specificate nella normativa). Infine, la piattaforma si rende disponibile a collaborare con le forze dell’ordine nel caso in cui sussistano rischi di danni fisici o minacce alla sicurezza pubblica.

Bibliografia e sitografia

C. Ring Carlson, Hate speech, Mit Pr, 2020

www.agendadigitale.eu


[1] Per chi fosse interessato all’argomento è consigliato leggere l’art. sul DPCM qui: https://www.dirittoconsenso.it/2020/05/04/dpcm-e-ordinanze-regionali-al-limite-della-legge/

[2] Corte di Cassazione, sent. 30737/2019.

Questo contributo è stato redatto da un articolista di Dirittoconsenso.it, partner di Legaltech Italia.

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