Gli illeciti connessi ai nomi a dominio

Descrizione dei principali illeciti connessi ai nomi a dominio nel nostro ordinamento

L’articolo ha l’obiettivo di offrire una descrizione delle principali forme di illecito legati ai nomi a dominio configurabili in base ai diversi settori dell’ordinamento giuridico. Dopo aver trattato gli illeciti civili, si passerà alla valutazione di quelli previsti in ambito penale ed amministrativo.

Indice degli argomenti

  • Gli illeciti civili
  • Il domain grabbing o cybersquatting
  • Il linking
  • Il metatag
  • Gli illeciti penali

Gli illeciti civili

È intuitivo che attraverso Internet sia possibile realizzare illeciti di diversa natura, primi fra tutti illeciti civili. Questi sono ricondotti, dalla dottrina dominante, alla fattispecie della confusione dei segni distintivi. Si sta verificando un uso indiscriminato dei segni distintivi delle imprese, tale per cui oggi “è possibile parlare di nuove pratiche confusorie della rete[1].

Appare emblematica la distinzione dogmatica degli illeciti civili proposta dalla dottrina[2], secondo cui è possibile individuare:

  • gli illeciti di Internet, ossia quelli compiuti dai soggetti stessi che gestiscono la rete e ne permettono l’accesso;
  • gli illeciti contro Internet tra cui rientrerebbero quei comportamenti da parte di tutti quei soggetti che hanno interesse a danneggiare il funzionamento stesso delle Rete di Internet; e poi,
  • gli illeciti per mezzo di Internet, consistenti in tutti quegli illeciti già realizzabili per mezzo degli strumenti ordinari e che, all’occorrenza, possono essere realizzati anche con il mezzo di Internet.

Il domain grabbing o cybersquatting

L’atteggiamento più diffuso è quello relativo al c.d. domain grabbing o cybersquatting che, letteralmente, rimanda al concetto di un’occupazione abusiva sullo spazio del nome a dominio[3].

In effetti, l’illecito maggiormente praticato sarebbe proprio quello di registrare abusivamente dei nomi a dominio riconducibili a marchi altrui, in specie se celebri o rinomati, posto che il titolare del marchio non potrà registrare il corrispondente nome di dominio in quanto già illecitamente registrato da altri, posto che non possono coesistere due nomi a dominio identici[4].

Più precisamente, per domain grabbing si deve intendere quella pratica confusoria consistente nella registrazione presso la Naming Authority del marchio appartenente a terzi e con il solo fine di fruire della notorietà del suddetto marchio.

La registrazione da parte di terzi soggetti di un nome a dominio corrispondente ad altri segni distintivi notori segue la regola del first come first served, secondo la quale la registrazione del nome a dominio avvenuta con priorità sui successivi legittima l’uso regolare dello stesso.

La giurisprudenza di merito[5], però, sembra individuare nel domain grabbing un’autentica contraffazione, individuabile nella speculazione compiuta sul nome di dominio di segno distintivo celebre, in un contesto nel quale, però, il titolare del segno distintivo merita di ottenere tutela a prescindere dall’effettivo utilizzo del nome di dominio contraffatto.

Così, in particolare, la giurisprudenza[6] ha ritenuto sussistere la pratica del domain grabbing con riferimento a quelle ipotesi in cui, seppur con riferimento a prodotti o servizi non affini, il titolare del domain name inseriva nella denominazione del Second Level Domain il segno grafologico riferibile al marchio celebre, con la conseguenza che il titolare del nome di dominio otteneva il vantaggio indiscusso di accaparrarsi un largo numero di clienti-consumatori che non avrebbe conseguito, nello stesso ristretto tempo, ove fosse stato costretto a ricorrere agli usuali mezzi della pubblicità, se non dopo un consistente lasso di tempo[7].

Il nome a dominio, liberamente registrato, non rispetterebbe due dei principi fondamentali che interessano sia il marchio che gli altri segni distintivi: il principio di territorialità, dato che il nome a dominio registrato non avrebbe una valenza limitata ad un particolare territorio, ma risulterebbe estesa su tutto lo spazio della Rete di Internet; inoltre, verrebbe ignorato il principio di specialità o di relatività merceologica, secondo il quale è possibile la coesistenza di marchi simili o identici tra loro, purché appartenenti a soggetti diversi e facenti riferimento a prodotti diversi, onde evitare il pericolo di confusione tra i consumatori.

Il linking

Altra pratica illecita e quella del linking, invece, accade che per il tramite di un link l’utente della rete venga rimandato dalla pagina del sito (sul quale aveva iniziato la consultazione) ad un sito diverso appartenente ad altro soggetto[8].

La dottrina[9], a tal proposito, ha operato un’ulteriore distinzione della pratica in oggetto: ha individuato la pratica del deep-linking[10], consistente nell’inserire un link nella pagina web su cui naviga l’utente, con l’effetto di rimandare quest’ultimo, in caso di click sul collegamento ipertestuale, direttamente su una terza pagina senza che vi sia la possibilità di individuare la home page appartenente al nome di dominio terzo. Viceversa, il “surface-linking”, consente di far visualizzare all’utente l’home page del nome di dominio terzo, potendosi rendere conto della sua identificazione, pur essendo rinviato ad un link esterno a quello in cui si ritrova ad operare.

Infine, la dottrina ha individuato la pratica del framing (letteralmente, dall’inglese, “nella cornice”) che consisterebbe nel creare una cornice (posizionata nella pagina internet per prima visitata dall’utente) all’interno della quale è visibile immediatamente un riquadro di altra pagina internet (con nome a dominio terzo) a cui il sistema predetto vorrebbe rimandare[11]. In tal senso, si avrebbe una piena confusione tra i segni distintivi riconducibili ad una data impresa e quelli che altro soggetto terzo utilizza in modo abusivo, anche perché la cornice in oggetto continuerebbe ad essere visualizzata dall’utente in ogni altra pagina del sito internet a cui si collega.

Il metatag

Una terza pratica confusoria attiene all’utilizzo dei metatag: si tratta, nello specifico, secondo la definizione fornita dalla dottrina[12], di comandi alfanumerici, invisibili agli utenti ma decodificati dai motori di ricerca, con i quali vengono adoperate delle parole chiave in grado di posizionare il sito di interesse al vertice del motore di ricerca, al fine di rendere quel sito più visibile alla platea degli utenti di Internet.

L’uso dei metatag è generalmente ben tollerato dall’ordinamento giuridico[13], ad eccezione di quei casi in cui esso venga utilizzato con effetti distorsivi del gioco della concorrenza, in quanto volto a creare confusione tra gli utenti di Internet si verifica quando il metatag (di un marchio altrui contraffatto) collochi al vertice del motore di ricerca quel sito che rinvia al prodotto contraffatto, piuttosto che a quello originario. L’utente\consumatore è così indotto a credere di trovarsi sul sito riconducibile al prodotto originale, invece che sul sito del prodotto contraffatto.

La dottrina ha parlato, al riguardo, di “invisible trademark infringement[14].

Con riguardo alla tutela che in questo caso dovrebbe trovare applicazione contro gli illeciti posti in essere dall’uso confusorio dei metatags, la giurisprudenza è sembrata attestarsi sulla disciplina concorrenziale di cui all’art. 2598 c.c.[15], in quanto atto di concorrenza sleale più che di contraffazione del marchio.

Gli illeciti penali

Con riguardo ai possibili illeciti perseguibili nel campo penale, vi è subito da dire che forte è l’esigenza di assicurare una tutela dal punto di vista dell’immissione dei contenuti in Internet ad opera di terzi. Difatti, il tema della sicurezza informatica, in generale, consiste nell’assicurare che le risorse di un’organizzazione o di un utente siano usate unicamente nei casi e nei modi previsti dalle norme e dagli accordi intercorsi tra le parti.

Sulla tutela del nome di dominio è intervenuta una pronuncia del Tribunale di Torino[16] che ha affrontato il problema della tutela civilistica dei nomi a dominio, con un inevitabile riflesso anche nella disciplina penale.

Nel particolare, si trattava di un utilizzo illegittimo di un nome utilizzato per registrare un dominio da parte di un soggetto, che non aveva però alcun legame con il dominio stesso.

In sede cautelare ex art. 700 c.p.c., il Tribunale ha inibito l’uso di un dominio registrato ed ha imposto alla Registration Authority italiana di revocare l’assegnazione del suddetto dominio effettuata a favore del convenuto. La ricorrente – giovane e famosa attrice – si era, infatti, trovata nell’impossibilità di registrare un dominio corrispondente al proprio nome, poiché già registrato da una società che affermava di avere individuato tale nome a dominio unendo i nomi di tre personaggi di fantasia e che, a ben vedere, erano venuti a comporre le generalità della ricorrente.

La medesima società, tra l’altro, si era persino dichiarata disponibile a cedere il medesimo nome solo a fronte di una cospicua somma (da qui, il fenomeno individuato dai giudici di merito del domain grabbing). La malafede della parte convenuta è evidente e si evince dalla apparente violazione delle regole di «naming» sotto il profilo dell’assunzione di responsabilità circa la mancanza di interesse di terzi a registrare quel nome a dominio o di lesione di diritti dei terzi.

Per quanto riguarda questo indebito utilizzo di nome, il caso in oggetto merita una riflessione sulle ripercussioni in campo penale poiché un dominio aziendale può essere riconducibile ad un marchio registrato presso l’Ufficio marchi e brevetti rendendo di per sé applicabile la disciplina penale prevista dal codice agli artt. 473, 474 e 517 c.p.[17].  

Tuttavia, ogni qual volta l’acquisizione, la registrazione ed il conseguente utilizzo di un nome altrui siano avvenuti al di fuori di qualsiasi forma di consenso del titolare, al solo fine di «appropriarsi» del valore di mercato di tale nome ed ottenerne eventualmente un corrispettivo per la cessione ricorre la fattispecie prevista dall’art. 494 c.p. (sostituzione di persona).

L’art. 494 c.p. sanziona, infatti, il comportamento di chi, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio (o di recare ad altri un danno) inducendo in errore un terzo, sostituisce illegittimamente la propria all’altrui persona, attribuendo a sé un falso nome o un falso stato o una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici. Si tratta di una situazione facilmente applicabile alle descritte ipotesi di «domain grabbing», anche perché la norma non considera solo la possibilità che l’uso indebito del nome altrui sia avvenuto per trarne un profitto, ma anche solo per arrecare ad altri un danno, come nel caso in cui si voglia impedire l’altrui registrazione.

Si sottolinea che il comportamento, per poter assumere rilievo penale, deve essere tale da «indurre» taluno in errore; ciò, indirettamente, presuppone una valutazione sulla idoneità della sostituzione a determinare tale effetto.

In questo senso nessun dubbio può sorgere nel caso in cui un soggetto fisico, presentandosi come tale, assuma e dichiari le generalità di altro soggetto fisico. In termini più problematici si pone l’applicabilità dell’indicazione di «persona» anche ad una «persona giuridica»; sul punto, in assenza di specifiche indicazioni della Cassazione, non si può escludere un’interpretazione «estensiva», non avendo il legislatore specificato espressamente la fattispecie in materia. Sulla base di tale presupposto potrebbe assumere autonoma valenza penale anche la registrazione di un dominio con l’indicazione di una società già «esistente» sul mercato: nel caso in cui la ragione sociale altrui risulti già registrata come marchio, devono ritenersi applicabili in via esclusiva gli artt. 473 e ss. c.p., atteso che l’art. 494 c.p., quale norma «sussidiaria», è applicabile solo «se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica».

Nel caso in cui, infine, sia una società ad «appropriarsi» di un nome di un privato, come nel caso sopra riportato, pare in astratto non ravvisabile quella «idoneità» astratta all’induzione in errore implicitamente richiesta dalla norma, ferma restando la possibilità di agire in sede civile sia per finalità cautelari che per fini risarcitori.

Bibliografia

V. TREVISAN & G. CUONZO, Proprietà industriale, intellettuale e IT;

M. MEGALE, ICT e diritto nella società dell’informazione;

E. TOSI E., Le responsabilità civili dei prestatori di servizi della società dell’informazione;

C. VACCÀ, Nomi di dominio, marchi e copyright;

A. FITTANTE, La rilevanza del nome a dominio ed il conflitto con i marchi e gli altri segni distintivi;

Tribunale Parma, 26/02/2001;

Tribunale Roma, 11/02/2010;

A. COGO, Linking e framing al vaglio della Corte di giustizia dell’Unione Europea;

G. CASSANO, Meta-tag: il primo caso italiano;

E. TOSI, Contraffazione di marchio e concorrenza sleale in internet: dal classico domain grabbing all’innovativo key-word marketing confusorio;

Tribunale Torino, 21/12/2010;

C. PARODI, Responsabilità del provider;


Note

[1] V. TREVISAN & G. CUONZO, Proprietà industriale, intellettuale e IT, Wolters Kluwer, 2017, p. 268.

[2] M. MEGALE, ICT e diritto nella società dell’informazione, Giappichelli, 2016, pp. 263-285; E. TOSI E., Le responsabilità civili dei prestatori di servizi della società dell’informazione, Resp. civ., 2008, pp. 3 ss.; C. VACCÀ, Nomi di dominio, marchi e copyright, Giuffré Editore, 2005, pp. 237-262.

[3] Per approfondimenti sul tema dei Nomi a dominio si veda anche: https://www.dirittoconsenso.it/2020/12/07/nomi-a-dominio-informatica-e-diritto/

[4] A. FITTANTE, La rilevanza del nome a dominio ed il conflitto con i marchi e gli altri segni distintivi, Dir. Industriale, 2018, 1, pp. 84 ss

[5] Cfr. Tribunale Parma, 26/02/2001.

[6] Cfr. Tribunale Roma, 11/02/2010.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. A. COGO, Linking e framing al vaglio della Corte di giustizia dell’Unione Europea, Giur. It., 2014, pp. 10 ss.

[9] Cfr. A. COGO, op. cit., pp. 10 ss..

[10] Cfr. A. FITTANTE, op. cit., pp. 84 ss.

[11] Cfr. A. COGO, op. cit., pp. 10 ss.; A. FITTANTE, op. cit., pp. 84 ss. il quale in particolare, ritiene che non sussista una rilevante differenza concettuale tra la pratica del linking e quella del framing considerato che, viste nella loro sostanza, entrambe le pratiche rimandano ad un fenomeno di collegamento ipertestuale. Viceversa, la differenza sarebbe costituita soltanto dalla modalità con cui si accederebbe all’una o, piuttosto, all’altra pratica: difatti, il linking sarebbe costituito da un link in ipertesto; il framing, invece, corrisponderebbe ad una cornice all’interno della quale compare il link in ipertesto sotto la forma di colori, immagini, suoni o video, quest’ultimo, tuttavia, in grado di attirare di gran lunga l’utente rispetto al mero link statico.

[12] Cfr. G. CASSANO, Meta-tag: il primo caso italiano, Corriere Giur., 2001, 8, pp. 1087 ss.

[13] Ci si riferisce, in particolare, al caso degli Adwords di Google che consiste nel posizionamento di metatag nel motore di ricerca predetto, dietro apposito pagamento. Si tratta, in altre parole, di un link pubblicitario che finisce, in modo dichiarato, tra i link pubblicitari di Google. Essi risultano ampiamente consentiti dall’ordinamento italiano anche se, invero, non si può sottacere la circostanza che essi danno luogo ad un risultato analogo a quello della pratica scorretta di metatags, in quanto consistono nel porre al vertice della ricerca determinati nomi a dominio i quali, in assenza di tale collocamento, non avrebbero la medesima “forza” di ricerca.

[14] Cfr. A. FITTANTE, op. cit., pp. 84 ss.; E. TOSI, Contraffazione di marchio e concorrenza sleale in internet: dal classico domain grabbing all’innovativo key-word marketing confusorio, in Riv. Dir. Ind., 2009, 4-5, pp. 387 ss.

[15] Art. 2598 (Atti di concorrenza sleale) c.c.: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

[16] Cfr. Tribunale Torino, 21/12/2010.

[17] Cfr. C. PARODI, Responsabilità del provider, op cit., pp. 1549 ss.

Questo contributo è stato redatto da un articolista di Dirittoconsenso.it partner di di Legaltech Italia.

UNISCITI A NOI!
Se vuoi dirci la tua e rimanere aggiornato sul mondo legaltech unisciti alla community Telegram! 
Clicca qui per partecipare!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *