I nomi a dominio: tra informatica e diritto

Analisi degli aspetti informatici e giuridici legati ai nomi a dominio nel nostro ordinamento

[Abstract] L’articolo ha l’obiettivo di offrire una definizione sia in termini informatici che giuridici di cosa siano i “nomi a dominio”, ripercorrendone la storia ed inquadrandone le principali problematiche sorte alla luce delle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali, passando attraverso la spinosa questione dell’inquadramento della loro natura giuridica.

Cosa sono i nomi a dominio?

I nomi a dominio sono oramai entrati a far parte dell’utilizzo quotidiano ogniqualvolta si naviga su Internet.

Si definisce “nome a dominio”, secondo una nozione eminentemente pragmatica, quello strumento tecnico-informatico che assume la forma di un indirizzo telematico, associato a ciascuna delle singole risorse presenti nella Rete di Internet[1].

Si è venuto a costituire, a partire dagli anni ‘90, un nuovo mercato della domanda e dell’offerta di natura digitale, in un contesto nel quale, però, i tradizionali segni distintivi (il marchio, la ditta e l’insegna) trovavano compiuta regolamentazione a differenza dei nomi a dominio.

Equivale ad una mera denominazione, al pari di ogni altro nomen già presente nell’ordinamento giuridico, che consente al suo utilizzatore di essere individuato, nella Rete di Internet in cui opera, in modo inequivocabile ed unico rispetto ad ogni altro soggetto ivi presente[2].

Il sistema informatico elaborato per consentire l’attribuzione di un unico e solo indirizzo telematico al suo utilizzatore è stato il c.d. Domain Name System (DNS).

Una definizione in senso giuridico di “domain name” è anche offerta dalla giurisprudenza, la quale afferma: “per domain name, versione alfanumerica dell’indirizzo Ip, deve intendersi “il segno che consente l’identificazione e l’accesso ad un determinato computer dalla rete Internet e quindi il collegamento con un certo utente da parte della generalità di tutti gli altri computer ed utenti connessi in rete (Tribunale Mantova Ord., 05/06/2004)”.

Gli aspetti informatici

Il tema dei “nomi a dominio”, pertanto, non può prescindere da una prima fondamentale descrizione dell’ambiente tecnologico in cui essi sono sorti e continuano ad operare.

Come noto, essi operano nel sistema della Rete di Internet, lo spazio telematico in cui si ha la trasmissione di segnali continui al fine di connettere i diversi punti presenti in Rete. A tal proposito, le Reti, a seconda della loro estensione, possono distinguersi in locali (le reti LAN – Local Area Network) che consentono la trasmissione di dati all’interno di un’area circoscritta, come le aziende; in geografiche, tra cui è possibile distinguere la MAN (Metropolitan Area Network, con un’estensione nel raggio di 50 km), la Wan (World Area Network), con estensione ad un’intera Nazione, e, infine, la GAN (Global Area Network) che è la vera e propria rete di Internet di cui tutti ci avvaliamo e che opera in un contesto globale[3].

In origine, il sistema di identificazione dei soggetti host sulla Rete era costituito dal c.d. Internet Protocol (o indirizzo IP)[4], ancora oggi ampiamente utilizzato. Difatti, quest’ultimo consiste in un indirizzo composto esclusivamente da numeri combinati tra loro, i quali permettono di identificare tanto l’indirizzo di Rete percorso, quanto l’indirizzo del singolo host posizionato all’interno di quella rete[5].

L’indirizzo costituente il nome a dominio deve essere inserito all’interno di una stringa informatica, denominata URL[6]. Tale indirizzo, pertanto, partendo da destra verso sinistra, è composto, innanzitutto, da un nome a dominio di primo livello o TLD (Top Level Domain), o altresì conosciuto come “suffisso”; esso è, poi, seguito da un nome a dominio di secondo livello o SLD (Second Level Domain), e così via, a seconda della specificazione che si vuole ottenere[7].

La peculiarità sta nel fatto che i domini di primo livello sono generalmente riconducibili ad entità di tipo territoriale (ccTDL) o connessi proprio al tipo di attività (gTDL) che svolge l’utilizzatore del nome a dominio; invece, i domini di secondo livello costituiscono la parte identificativa e maggiormente distintiva[8] del nome di dominio. Infine, i “sottodomini” di livello successivi, gerarchicamente subordinati ai domini di primo e di secondo livello, sono quelli che consentono di scendere nel dettaglio degli indirizzi telematici, con un grado di specificazione che è collegato alla quantità di domini in uso presso il suo utilizzatore.

Tipologia di nomi a dominio

I generic Top Level Domain furono creati da IANA (Internet Assigned Numbers Authority) la quale, incaricata dal Governo degli Stati Uniti, quando ancora Internet veniva gestito da ARPANet (Advanced Research Project Agency) con finalità di comunicazione tra le basi militari americane tra gli anni 60’ e gli anni 70’ del secolo scorso, ne individuò 7: 1) “.com”; 2) “.gov”; 3) “.int”; 4) “.mil”; 5) “.net”; 6) “.org”; 7) “.edu”, i quali, in particolare, i nn. 1), 5) e 6) erano rivolti a persone fisiche e giuridiche; il n. 2) era riservato esclusivamente al governo degli Stati Uniti; il n. 3) era riservato alle organizzazioni istituite tramite trattati internazionali; il n. 4) era riversato esclusivamente alle istituzioni militari statunitensi; il n. 7) era riservato alle istituzioni accademiche statunitensi.

Successivamente, la IANA affidò ad altre tre agenzie il compito di creare e di attribuire nuovi nomi a dominio (c.d. attività di naming). Da una tale iniziativa nasce la ARIN (American Registry for Internet Numbers) con competenza territoriale su tutte le Americhe; la RIPE – NCC (Reseaux IP Européèns) con competenza territoriale sull’Europa, Medio Oriente, nonché alcuni Paesi dell’Africa e dell’Asia ed, infine, l’APNIC (Asian Pacific Network Information Center) per l’Estremo Oriente.

Dal novembre 2000 l’organizzazione di riferimento per l’assegnazione dei nomi a dominio è, invece, l’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) la quale opera come ente-non profit nella gestione degli indirizzi IP e nell’assegnazione dei nomi a dominio ed ha, tra gli altri, il compito di vigilare sulle regole di concorrenza dei nomi a dominio dettate dal governo statunitense.

La disciplina giuridica precedente al d. lgs. 10/02/2005, n. 30

Dal punto di vista giuridico, invece, il problema centrale deriva dal fatto che i nomi a dominio non sono stati, ab origine, sottoposti a nessuna disciplina in particolare e ciò a causa del fatto che il legislatore non ha mai creato una disciplina ad hoc.

La necessità di riconoscere al nome di dominio una disciplina apposita e specifica non è dettata da un mero intento filo-tecnologico di adeguare il nostro Paese ai continui cambiamenti che il settore dell’Informatica ci riserva; quanto, in realtà, di stimolare il legislatore a prendere coscienza che i nuovi strumenti, oramai entrati a far parte dell’uso quotidiano di ciascun utente, non possono essere lasciate al caso o, addirittura, alla “auto-regolamentazione” da parte degli stessi utenti.

A tal proposito, è necessario fin da subito osservare che, in una primissima fase iniziale, ben antecedente all’introduzione del Codice, gli unici strumenti in mano agli interpreti fossero le procedure di naming e la disciplina dei segni distintivi: duplice nucleo di fonti[9], ove, però, la prima aveva natura regolamentare e, comunque, limitata a considerare i domain names esclusivamente sotto il profilo tecnico ed, in ogni caso, avente origine pattizia con valenza per le sole parti aderenti all’Authority di Registrazione[10]; la seconda, invece, era la disciplina a carattere normativo, offerta dalla legge marchi citata e che, invero, poteva riuscire ad assumere valenza per il domain name, grazie ad una speciale forza attrattiva di natura analogica, soltanto se e quando il dominio in questione avesse raggiunto una sufficiente capacità distintiva[11].

L’impatto del Codice della Proprietà Industriale sui nomi a dominio: dottrina e giurisprudenza a confronto

Con il Codice della Proprietà Industriale (c.p.i.)[12], introdotto alla luce del d. lgs. 10/02/2005, n. 30, finalmente, il legislatore è intervenuto per dare una risposta alle incessanti pressioni della dottrina e della giurisprudenza. Con l’introduzione della normativa in esso contenuta, tutte le opinioni contrastanti che si sono registrate sia tra gli studiosi, sia tra i giudici di merito possono dirsi definitivamente superate. Sicché, l’unica disciplina effettivamente applicabile a partire dall’entrata in vigore del c.p.i. è soltanto quella ivi contenuta.

Con il c.p.i. il legislatore ha fatto propria l’opinione per lungo tempo sostenuta in dottrina ed in giurisprudenza e l’ha direttamente posta alla base del codice, sancendo, la totale equiparazione dei nomi a dominio alla categoria dei segni distintivi.

Il Codice, pertanto, presenta una parte a contenuto sostanziale ed un’altra a contenuto procedurale.

Nella parte sostanziale, rileva, in primo luogo, l’art. 12 c.p.i., rubricato come “novità”, ove già al primo comma, lett. b) – ed in ciò si può notare la sostanziale innovazione operata dal legislatore – è affermato che non è ammessa la registrazione di un marchio che sia identico o simile “a un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna” e, perfino, che sia simile o identico ad un nome a dominio, quando concreto sia il pericolo di confusione tra i due segni.

Un altro riferimento al nome a dominio, nella parte sostanziale del codice, si riscontra all’art. 22 c.p.i ove è affermato – per completare il discorso già iniziato al precedente art. 12 c.p.i. – che, in ossequio al principio di unitarietà dei segni distintivi, “è vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio di un sito (…) un segno uguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell’identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni”.

Sicché, emerge che il livello minimo di confusione affinché esso rilevi come illecito civile, secondo la norma, è anche il rischio di associazione tra i due segni.

Tuttavia, già la dottrina precedente al Codice della Proprietà Industriale, individuava nel nome a dominio “il «luogo virtuale» di contatto tra l’imprenditore ed il suo potenziale cliente, da intendersi come lo strumento idoneo a costituire un collegamento diretto tra i due soggetti indicati[13]. Non a caso, in dottrina si è parlato di “segno distintivo virtuale[14], proprio per indicare che il nome a dominio sarebbe dotato di quella medesima capacità distintiva che lo accomunerebbe agli altri segni distintivi tipici, ma che è, al contempo “virtuale”, nel senso di operare in un ambiente completamente dematerializzato, quale è Internet.

Altra dottrina ha posto l’accento sul fatto che la natura giuridica del nome a dominio non potrebbe essere ricondotta tout court a quella dei segni distintivi vista la forte differenza funzionale ed ontologica che vi sarebbe tra i vari strumenti di comunicazione[15].

Nondimeno, non renderebbe pienamente assimilabili le due categorie, al di là dell’oggettiva diversa provenienza, altresì, il luogo in cui essi vengono ad operare. Invero, se da un lato entrambi si caratterizzano per il fatto di rientrare nella natura di beni – sia pure con le opportune limitazioni rispetto alla nozione giuridica di cui all’art. 810 c.c. – essi sono destinati ad operare in due ambienti completamente diversi: i segni distintivi tipici, in un luogo inevitabilmente chiuso, qual è quello dato dal territorio nazionale; i nomi a dominio, invece, posta la loro appartenenza al mondo del “cyberspazio”, si trovano a sfuggire da ogni confine e tentativo dei legislatori di “reclusione” all’interno di una disciplina specifica.

Invero, questi problemi vengono ritenuti superabili dalla dottrina maggioritaria in quanto, in primis, ritengono che sia innegabile riconoscere anche ai nomi di dominio una precipua funzione distintiva: si pensi alla possibilità che essi hanno di ricondurre gli utenti dalle pagine internet ai beni o servizi prodotti dalle imprese, nonché alla funzione pubblicitaria che essi rivestono, propriamente intesa come capacità di attrarre i potenziali clienti all’acquisto dei medesimi. Pertanto, ben evidente sarebbe l’attitudine dei nomi di dominio di comunicare verso gli utenti la provenienza merceologica e produttiva del bene o del servizio così identificato.

E ciò appare pienamente coerente se si considera che anche la ditta o l’insegna sono stati protetti proprio sulla base del principio di unitarietà dei segni distintivi e, cioè, in quanto essi, unitamente al marchio registrato.

Analogamente, anche il domain name, che dovrebbe rispondere al medesimo principio, posto che è stato ricondotto sotto l’alveo dei segni distintivi per effetto di un’estensione interpretativa secondo le opinioni dominanti, sarebbe stato oggetto di tutela non in sé e per sé, ma in quanto avesse trovato corrispondente tutela nel marchio registrato.

Orbene, alla luce dell’introduzione del Codice del 2005 e, specialmente, con l’art. 22 che ha accolto tutte le varie considerazioni fornite dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ogni dubbio interpretativo risulta quanto mai superato. Difatti, grazie a questa e alle altre norme, che espressamente disciplinano il tema dei nomi a dominio nel Codice della Proprietà Industriale, è finalmente possibile affermare che anche il nome di dominio deve essere considerato alla stregua di un autonomo segno distintivo, sia pure atipico[16].

Bibliografia

G. PICA, Commercio telematico, voce del Digesto – sez. civile, 2003;

E. TOSI, Tutela dei nomi di dominio e segni distintivi, voce del Digesto – sez. commerciale, 2003;

C. VACCÀ, Nomi di dominio, marchi e copyright, Giuffré Editore, 2005;

M. MEGALE, ICT e diritto nella società dell’informazione, Giappichelli, 2016;

A. BERTACCHI, Il nome a dominio e la tutela del marchio, Impresa, 2001;

G. PICA, Internet, Digesto – Penale, 2004;

S. AIMO, Internet, domain names e diritti di proprietà intellettuale sui segni distintivi: le prime decisioni;

A. PALAZZOLO, Alcuni spunti in tema di regolamentazione dei nomi di dominio: la pignorabilità, il potere di   disposizione del titolare registrante e la disciplina pubblicistica;

TREVISAN & CUONZO, Proprietà industriale, intellettuale e IT, Wolters Kluwer, 2017;

Tribunale Bologna Sez. feriale Ord., 28/09/2009;

Tribunale Mantova Ord., 05/06/2004.


[1] Si vedano, tra gli altri, i seguenti Autori: G. PICA, Commercio telematico, voce del Digesto – sez. civile, 2003; E. TOSI, Tutela dei nomi di dominio e segni distintivi, voce del Digesto – sez. commerciale, 2003.

[2] C. VACCÀ, Nomi di dominio, marchi e copyright, Giuffré Editore, 2005.

[3] Cfr. M. MEGALE, ICT e diritto nella società dell’informazione, Giappichelli, 2016.

[4] Esso risulta rappresentato da un insieme di numeri di 32 bit con il valore decimale dei quattro bytes che lo compongono (per esempio 100.115.180.145).

[5] Una spiegazione più analitica di come funziona l’architettura di Internet appare essenziale ai fini di una maggiore intelligibilità degli argomenti sopra esposti. Per host deve intendersi un computer collegato ad una Rete e destinato a comunicare con i c.d. router (letteralmente, instradatori) che sono costituiti da altrettanti computer, i quali assolvono alla funzione di connettere tra loro reti diverse, G. PICA, Internet, Digesto – Penale, 2004.

[6] Acronimo di “Uniform Resource Locator” che sta ad indicare, appunto, il “luogo” digitale ove deve essere inserito l’indirizzo telematico.

[7] Cfr. A. BERTACCHI, Il nome a dominio e la tutela del marchio, Impresa, 2001; M. MEGALE, op. cit; E. TOSI, op. cit.

[8] Anche la giurisprudenza si espressa in tal senso: si veda Tribunale Bologna Sez. feriale Ord., 28/09/2009 ove si è affermato che “in tema di marchi e rapporti con i nomi a dominio, la funzione distintiva viene esclusivamente svolta dal Second Level domain (SLD), costituito da una sequenza di lettere, eventualmente parole, senza che possa utilizzarsi lo spazio per separare le medesime, con la conseguenza che frequentemente più parole vengono a susseguirsi senza interruzione. Deve essere quindi esclusa l’attitudine distintiva del termine generico “lavoro” laddove invece l’inserimento del nome dell’impresa è idoneo a svolgere tale scopo”.

[9] È stato affermato in dottrina che “la doppia natura – tecnica e giuridica – dei nomi di dominio si manifesta anche nel doppio quadro regolatorio di riferimento: da un lato la normativa statuale in materia di marchi e dall’altro la disciplina regolamentare dell’indirizzo telematico considerato esclusivamente sotto il profilo tecnico”, in E. TOSI, Tutela dei nomi di dominio e segni distintivi; Cfr. anche A. PALAZZOLO, Alcuni spunti in tema di regolamentazione dei nomi di dominio: la pignorabilità, il potere di disposizione del titolare registrante e la disciplina pubblicistica.

[10] Cfr. E. TOSI, Tutela dei nomi di dominio e segni distintivi. Altra dottrina fa, tuttavia, notare che, per quanto le regole di naming fossero prive di riconoscimento legislativo e di quell’autorevolezza che soltanto norme equiparate alla legge possono mostrare, nondimeno, queste regole assumono comunque un “potere legale vincolante”, posto che rappresentano l’unica procedura da seguire per chiunque intenda ottenere la registrazione di un nome a dominio. Giova rilevare, inoltre, che secondo una certa dottrina sarebbe possibile parlare, addirittura, della disciplina dei nomi a dominio come di un “ordinamento a sé stante” vista la particolare importanza che rivestono le regole tecniche per la procedura di registrazione dei nomi a dominio e di tutte le conseguenze, anche giuridiche, che da tali regole discendono.

[11] Cfr. E. TOSI, Tutela dei nomi di dominio e segni distintivi.

[12] Per approfondimenti si veda https://www.dirittoconsenso.it/2019/09/12/proprieta-intellettuale-diritti/;

[13] V. P. SAMMARCO, op. cit.

[14] V. E. TOSI, op. cit.

[15] Cfr. S. AIMO, Internet, domain names e diritti di proprietà intellettuale sui segni distintivi: le prime decisioni.

[16] TREVISAN & CUONZO, Proprietà industriale, intellettuale e IT, Wolters Kluwer, 2017.

Questo contributo è stato redatto da un articolista di Dirittoconsenso.it partner di Legaltech Italia

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